Il campanello di casa, muto da sempre, ha
appena rotto quel silenzio assoluto, riempendo le stanze di casa fino negli
angoli più nascosti. Impossibile non sentirlo, impossibile non svegliarsi. Il
cuore si è svegliato di soprassalto scuotendomi come una madre quando sveglia un
figlio che deve andare a scuola.
Apro gli occhi, recupero lo
spazio e il tempo. Mi riaggancio al filo della mia vita, dal quale la sera
spesso cerco di staccarmi, appoggiando la testa sul cuscino.
La luce riaccende gli occhi e la
stanza. Le ciabatte sono la, dove sempre, facili da ritrovare.
Non so quanto tempo sia passato
da quel suono inaspettato. Chissà se arriverò in tempo ad aprire. Percorro la
casa con il solito passo da estraneo. Sarà anche facile cambiare casa, ma non è
per niente facile farla propria e familiare. Cerco e ritrovo, annaspando
goffamente, via via gli interruttori. Infine la luce rischiara l’ampia stanza
di ingresso.
Il riverbero del buio che sta appena fuori, penetra tra le veneziane che chiudono la vetrata. Strisce di buio si
intervallano al verde delle lamelle. Strano non ci sono luci che spigolano tra
le fessure. Sembra che fuori ci sia l’universo.
“Dove ho messo le chiavi ?”, mi
chiedo ritornando ai gesti di qualche ora prima. Poi guardo meglio. Prima di andare
a letto, avevo, con cura, chiuso fino all’ultimo giro la serratura, ma non avevo
estratto la chiave. Coincidenza fortuita.
Con la mano tremante di chi ha
fretta, rigiro le chiavi. La porta si apre con facilità. Alzo lo sguardo verso
il cancello, là da dove deve arrivare il segnale. Non vedo altro che buio,
forse i miei occhi sono ancora abbagliati dalla luce delle stanze.
Esco, entrando pure io in quel
buio, ed è come se percepissi le mie pupille dilatarsi a carpire il flebile
chiarore residuo. Ora qualcosa si delinea lentamente, come se la nebbia si
diradasse.
La luce della carrozzeria di fronte è
spenta, anche il termometro non si intervalla più con l’orologio.
Il silenzio appare più profondo.
Chissà perché, ma quella luce intermittente ricordava il ticchettio di un
interruttore. Buio e silenzio, accoppiata di neri, che impedisce qualsiasi
prospettiva.
Mi guardo intorno cercando contorni
familiari. Tutto inutile, tranne che per le sagome dei due grossi pilastri del
cancello. Punto lo sguardo, come a mirare un bersaglio, mettendo a fuoco quel poco
di definito che mi si presenta davanti.
Poi dietro le sbarre, che so
essere arrugginite, comincio ad intravvedere un’ombra. Sembra un corpo di
donna, che con la mano manda un lento saluto.
Non riesco a spiaccicare una
parola, nemmeno un consueto : “Chi è ?”.
Sono come ipnotizzato da quel
saluto che non so distinguere se essere un segno di addio o una richiesta di
attenzione.
La situazione mi angoscia e la
paura mi blocca, come preferissi non sapere.
Apro gli occhi. Noto il chiarore
verde del cellulare che sta sul comodino.
Mi chiedo : “Ma non stavo fuori poco fa ?”.
Mi chiedo : “Ma non stavo fuori poco fa ?”.
Realizzo la realtà, sospirando,
rallegrandomi di non aver identificato ne la donna ne il saluto del sogno. A dirla
tutta non riuscirei a sopportare un altro addio.
Ho letto questo post con un pò di sgomento, spero che nello scrivere ci hai messo qualcosa in più d'ansia di come è stato per davvero il tuo incubo.
RispondiEliminaHo imparato a mie spese che la vita reale supera per cattiveria molti dei nostri incubi. Come si dice in questi casi, la realtà supera l'immaginazione, anche onirica. La vita ti insegna a non contare su nessuno, a non credere alle parolone tipo solidarietà, giustizia, amicizia,... Sono solo frottole. Di fronte alla "situazione contingente" i buoni sentimenti spariscono nel nulla.
Capito questo (fortunato chi ha questi concetti sin da piccolo) basta vivere la realtà per quella che è e lasciare alla notte qualche bel sogno.
Non vale la pena fare degli incubi, sono solo banali remake del quotidiano.
Ciao