Le passioni sportive, come del resto, molti degli interessi a cui dedichiamo parte della nostra esistenza spesso non ci abbandonano mai. Altre invece, anche se intense e portatrici di forti emozioni, con il tempo tendono ad affievolirsi e inevitabilmente ad essere trascurate.
Mio padre mi ha trasmesso la passione per lo sport. Mi interessano quasi tutti gli sport, anche quelli meno diffusi, che spesso seguo inizialmente con interesse, cercando di carpirne regole e trucchi.
A pochi però sono veramente appassionato, mentre seguo tutti gli altri con l’attenzione di un normale sportivo.
Il ciclismo e l’atletica non sono mai stati messi in discussione, mentre la mia passione per il calcio ha subito negli anni una lenta e inesorabile trasformazione.
Sono cresciuto a dar calci al pallone, in qualsiasi luogo e con qualsiasi abbigliamento. Da bambino ho fatto mille fughe per andare a giocare a calcio, saltando la rete di casa con i gesti tipici di un ladro che non vuole farsi sentire dalla guardia (mia madre).
Posso annoverare e raccontare ai nipoti (poveri loro!), quando verranno, anche una breve carriera agonistica nelle giovanili della Mestrina (quando questa quadra era in serie C).
Poi, abbandonati i sogni da campione, tornai a giocare nella squadra del mio paese in seconda e terza categoria. Da quando smisi con il calcio agonistico, continuai saltuariamente a calpestare i campi di calcio, finché negli anni novanta, appesi definitivamente le scarpe al chiodo.
Dell'amore per il gioco del calcio mi è rimasto solo l'Inter. Sono sempre stato Interista e il calcio oggi per me è solo l’Inter, il resto, la Nazionale, il Campionato non mi interessa più. Mi considero una sorta di credente non praticante.
Il Pugilato, invece, è uno di quegli sport di cui ho perso ogni interesse. Da anni, forse decenni non seguo più un incontro di pugilato, mentre da ragazzo, sempre assieme a mio padre, ho seguito tutti i più grandi incontri di pugilato: le eterne sfide di Nino Benvenuti con Emil Griffit e Carlos Monzon e i combattimenti di Mohammed Ali contro Joe Frezier.
Di tutte le sfide seguite alla televisione in bianco e nero di allora, non ho dimenticato la tecnica sopraffina di Nino Benvenuti, la potenza di Carlos Monzon e la danza leggera di Mohammed Ali.
Ogni volta aspettavo il colpo risolutivo, il KO che avrebbe messo termine all’incontro, affascinato dalla potenza capace di abbattere l’avversario.
Spesso gli incontri finivano ai punti e mi appassionavano un po’ meno.
Con il tempo avevo imparato a riconoscere i colpi e le tecniche, oltre ai trucchi, che i pugili applicavano durante il combattimento. Ero sorpreso quando riuscivano a rialzarsi dopo un colpo che sembrava devastante, oppure quando, incuranti degli occhi tumefatti, non volevano arrendersi.
Le situazioni spesso si ripetevano ma l’immagine a cui sono più affezionato è quella del pugile colpito con un colpo da KO che, dopo essersi prontamente rialzato, nonostante le idee e la vista annebbiate, cercava di convincere l’arbitro a lasciarlo continuare, mimando una finta e approssimativa vitalità. L’arbitro continuava inesorabilmente il conteggio e quanto più andava avanti, tanto più disperati e irrazionali erano i gesti del povero pugile.
Poi arrivava il verdetto: KO e anche il poverino, che fino a pochi istanti prima era pronto a continuare il combattimento, lo accoglieva con rassegnazione. La partita era persa e il futuro spesso non avrebbe permesso ulteriori opportunità.
Entrato nell’ambulatorio, attendevo la dottoressa, per potermene andare finalmente a casa. Me lo avevano detto tutti : nessun problema al cuore, anche se, durante la notte i dolori non mi avevano mai abbandonato. In quei momenti, ma solo da pochi minuti, mi sembrava di stare di nuovo bene e la notte insonne, densa di sofferenze, sembrava appartenere ad un altro.
La dottoressa arrivò, incurante delle mie richieste di andarmene al più presto. Non capivo il suo indugiare sulle carte.
Mi dicevo :” Se lo avevano capito pure gli infermieri non devono esserci dubbi !”.
Se ne andò per qualche istante, mentre l’infermiera cominciò a farmi strane domande relative alla privacy.
Io continuavo, palesando una strana sicurezza, a chiedere il certificato di dimissione.
La dottoressa tornò per farmi l’ecocardiografia.
“Perché mai ? “, mi chiesi e le chiesi.
La mia sicurezza cominciò a traballare, divenni più remissivo. Chiesi ancora, meno convinto, quando me ne sarei potuto andare a casa.
Ma la dottoressa (l’arbitro), nel frattempo, aveva decretato il verdetto.
Alzato il telefono chiese la disponibilità di un posto letto nel reparto di Terapia Intensiva nonché della Sala Operatoria.
Mi trasportarono in reparto con una sedia a rotelle e passando tra le persone in sala di attesa, non sapevo cosa pensare ne dove guardare.
Il colpo da KO era arrivato. La partita era persa.
Oggi a due anni da quel giorno, porto ancora i segni di quel KO, sia nel fisico che nell’animo.
A differenza dei pugili, che spesso vedevano la propria carriera infrangersi contro quel colpo che li aveva stesi, la vita mi ha dato ancora molto.
Ora tocca a me dare qualcosa alla vita.
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