Non molto tempo fa, ritornando con mio figlio piccolo, nei
luoghi dove ho trascorso al mia infanzia e dove abita ancora mia madre, avevo indicato, con un po’ di orgoglio e
nostalgia, il campetto dove da piccolo ero solito giocare a calcio.
Lo spiazzo, un quadrato che forse non supera i 400 metri
quadrati di superficie, è il piazzale di una piccola chiesetta di campagna, che
sorge ai lati della strada che porta al paese, poco lontano da quella che era
allora la mia casa. L’area non era recintata ed era abbastanza normale che il
pallone e, spesso qualche azione, sconfinassero nella strada, dove i passaggi
delle macchine erano abbastanza radi e controllabili.
Uno dei lati del campo invece, era delimitato dal muro laterale della
chiesetta che svolgeva funzioni di giocatore aggiunto, contro il quale far
rimbalzare il pallone. Non sempre questo
modo di giocare andava a buon fine. In
certi casi, quando il pallone volava alto, poteva capitare che andasse a
incocciare con i vetri colorati della finestra della chiesa. I vetri rotti
furono molti, come pure le riparazioni a cui dovemmo provvedere con i nostri
risparmi.
In quel campetto, così angusto, si sono consumati o
autentici duelli , uno contro uno con il terzo in porta o, partite talmente
numerose che il pallone sembrava impazzito tra le gambe di una miriade di
ragazzini che arrivavano fin dal paese o, passando di fronte, si fermavano a
dare due calci al pallone.
Quel giorno avevo lasciato cadere il discorso, ma la
descrizione deve aver colpito il bimbo con lo stesso stupore che prova un leone, cresciuto allo zoo, quando scopre che esiste
la savana.
Ieri, tornando con lui a far visita alla nonna, arrivati in
prossimità del campetto, mio figlio, forse sognando il campetto pieno di bambini,
ha ripreso il discorso interrotto tempo addietro, chiedendo :
“Papà, la tua mamma ti lasciava venire a giocare a calcio qua
?”.
“No, non voleva, ma io dopo mangiato, scappavo di casa,
saltando al rete”, risposi con una punta di orgoglio, senza troppo pensare a
cosa stavo trasmettendo a mio figlio.
“E’ poi cosa faceva la nonna ?”, incalzò sempre più
incuriosito il bambino.
“Qualche volte mi chiamava a casa, altre volte mi aspettava
a casa con un frustino in mano “, continuai il racconto.
“E ti dava le botte ?”, rilanciò lui. Doveva apparigli molto
strana quella mia libertà conquistata con la fuga incurante delle
raccomandazioni , senza la concessione di nessun permesso, tra l’altro, nemmeno
mai chiesto. I bambini di oggi, nemmeno
si sognano di scappare di casa per giocare, anzi si trovano ad avere la
giornata talmente programmata da mille impegni da uscirne, alla sera, sfiniti.
“Non sempre le prendevo”, conclusi, “ Io correvo più forte
della nonna e riuscivo quasi sempre a rifugiarmi sotto il letto, dove lei non
riusciva ad arrivare. Rimanevo li fino a quando le passava l’arrabbiatura e
buttava il frustino”.
Solo in quel momento mi resi conto che quanto detto era del
tutto in contrasto con l’educazione, tutta obbedienza e controllo che cerco di
impartire a mio figlio.
Forse dovevo pensarci un po’.
Di certo non mancheranno altre chiarimenti …. Prima della prima fuga da casa …
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