Per prima cosa ho imparato a fare il manovale nell’impresa edile di mio
padre.
Durante gli anni della scuola superiore passavo così tutte le estati. Ne
uscivo abbronzato e irrobustito come avessi fatto mesi di palestra. Avevo
energia da vendere e, quando verso settembre riprendevo gli allenamento del
calcio, ero tra i più in forma. La scuola dei miei tempi cominciava il primo
Ottobre.
Con l’inizio della scuola terminavo il lavoro di manovale. Le mani
callose, pensavo che lavorare con i guanti fosse una forma di debolezza,
ritornavano ben presto meno ruvide e un po’ più sensibili.
Con i calli sparivano anche le botte e le cicatrici, a ricordo delle
ferite varie che per distrazione o troppo impeto mi procuravo con regolarità.
Fortunatamente quasi sempre in posti diversi.
Per le mani la questione era diversa.
Uno dei primi lavori che mio padre mi affidò fu quello di “aprire una
porta”, cioè abbattere una parte di muro dove doveva essere installata una
porta. Con cura lui al mattino fece le misure e le tracciature del caso . Poi
mi affidò uno scalpello ben affilato e una mazza per picchiare.
Come dicevo, l’energia non mi mancava, e nemmeno la voglia di far vedere
di essere capace e veloce nel fare i lavori. Insomma ci tenevo a fare bella
figura con mio padre, sempre presente e concentrato sul lavoro.
Quella mattina dopo aver dato i primi colpi con forza e precisione, aprendo
la prima breccia, mi passò sia il martello che lo scalpello, dicendomi di continuare
e fare ben attenzione a colpire lo scalpello
e non la mano che lo teneva.
Io ero rimasto sorpreso sia dalla forza che dalla sicurezza dei suoi
colpi. Sembrava che mazza e scalpello si conoscessero e si cercassero, tanta era
la precisione.
Quando toccò a me, in presenza di mio padre, mi limitai a dare dei
colpetti, prendendo le misure sia con la mazza che con lo scalpello e, già in
quei primi momenti notai che i due , mazza e scalpello, non sembravano più
amici come quando erano nelle mani di mio padre. Insomma non era facile colpire
con precisione.
Rimasto solo e presa un po’ di confidenza, aumentai sia la frequenza che
la forza.
Finché il braccio non avvertì i primi sintomi di stanchezza i colpi
furono abbastanza precisi e buona parte del muro cedette, ma con l’affaticamento
arrivarono i primi errori che immancabilmente fecero atterrare la mazza sulla
povera mano, che sosteneva lo scalpello.
Le botte furono memorabili, tanto da farmi lasciare la presa, come se lo
scalpello fosse diventato di colpo rovente.
Accennai solo dei piccoli urli, tanto nessuno mi avrebbe sentito ma,
dopo qualche minuto, necessario per far passare il dolore, riprendevo con vigore
ma sempre minore fiducia. Alla fine il muro fu demolito completamente, ma la
mia mano sinistra era diventata gonfia e dolorante. Durante la parte finale del
lavoro avevo cercato e indossato dei guanti che attutirono le ultime botte.
Quando mio padre fu di ritorno, vide con favore il lavoro terminato.
Diede gli ultimi colpi di rifinitura e poi posò gli occhi sulla mia mano, che
di tanto intanto guardavo preoccupato.
“Ma quante botte ti sei dato per ridurti in quel modo ?”, mi chiese.
“Poche..”, risposi evasivo, ricordando ancora i dolori uno per uno.
“Ma perché non hai fatto gli occhi alla mazza”, disse ridendo, “se facevi
gli occhi alla mazza non avresti sbagliato un colpo….”.
Io guardai la mazza, divertito, immaginando dove avrei potuto
posizionare gli occhi.
Avevo molto ancora da imparare……
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