La
prima maratona, preparata con molta approssimazione, la corsi l’11
ottobre del 1992. In quegli anni, ci si poteva iscrivere senza
appartenere ad alcuna società. Bastava essere in regola con il
certificato medico agonistico.
Ottenere
il certificato di idoneità agonistica non era per me un passatempo,
non perché fossi afflitto da qualche tipo di patologia, ma
soprattutto perché ero letteralmente terrorizzato dalla paura che mi
fosse diagnosticato un qualche tipo di patologia cardiaca.
Probabilmente già a quei tempi avevo delle premonizioni.
Quella
maratona si svolse per i primi venti chilometri sotto una pioggia
battente. Cercai di non strafare, impostai una andatura che avrebbe
dovuto portarmi al traguardo intorno alle 3 ore e 10 minuti.
In
effetti terminai in 3 ore e 17 minuti, a causa di un piccolo
cedimento nei chilometri finali. Per uno alla prima esperienza era un
buonissimo risultato.
Finita
la prima maratona, cominciai a pensare immediatamente alla
successiva, proponendomi di abbassare il tempo, ma soprattutto
puntando ad attaccare il muro delle 3 ore. Le tre ore per molti
maratoneti amatoriali è letteralmente un muro. Separa l'eccellenza
dalla massa, quelli che corrono da quelli che si trascinano.
L’impresa
non poteva però essere improvvisata. Ci voleva una preparazione
programmata e, nonostante inframmezzassi la corsa con letture
specifiche sulle metodologie di allenamento, decisi di affidarmi a un
allenatore.
Mi
affidai a un mio conoscente, da sempre nel mondo dell’atletica e
allenatore di una società del mio paese che faceva base nel campo di
atletica vicino a casa.. La società non prevedeva le categorie
amatoriale e fu così che fui tesserato come “seniores”. A quei
tempi ci scherzavo con colleghi e amici dicendo che avrei potuto
partecipare alle olimpiadi.
Ma
un seniores che si rispetti doveva seguire un allenamento rigoroso e
così una sera, terminato il periodo di riposo dopo la prima
maratona, passando per la pista di atletica, l’allenatore mi fornì
le tanto desiderate tabelle.
Il
programma prevedeva un misto di allenamenti qualificabili come “fondo
lento”, per curare la resistenza, accompagnati da quelli che erano
definiti “fondo medio”, che puntavano a migliorare la velocità
di base, che consistevano nel percorrere un diecimila a un ritmo più
veloce del ritmo gara. Il piatto forte erano però le ripetute, corse
da un chilometro da percorrere a velocità sostenuta, da ripetere
dopo un recupero di circa 4 minuti. Il carico di lavoro era
crescente: si cominciava con cinque ripetute per arrivare a quindici
dopo dieci settimane, aggiungendone una alla settimana. Questo
allenamento, una vera e propria tortura sia fisica che psicologica,
lo effettuavo il sabato mattina in un circuito misurato. Unico
sollievo… finirle.
Le
tabelle prevedevano tre settimane di “carico”, in cui gli
allenamenti andavano effettuati completamente, seguite da una
settimana di “scarico” in cui tutto andava svolto al cinquanta
percento. Al termine del periodo di scarico si poteva programmare una
gara per verificare i progressi ottenuti.
L'obiettivo
era una maratona in primavera, quella di Torino, il 25 Aprile 1993,
era la più probabile.
Nel
programma erano previsti, inoltre, tutta una serie di esercizi che
avevano il compito di potenziare i muscoli. Si andava da esercizi a
terra che eseguivo in sala da pranzo la sera, fino ad arrivare a una
serie di salti e balzi che effettuavo lungo il circuito delle
ripetute.
Tra
gli esercizi di potenziamento c’era anche il “traino del
pneumatico”.
In
pratica mi procurai un pneumatico di automobile dismesso e 20 metri
di corda. Legato saldamente il pneumatico a un capo della corda, mi
legavo all'altezza della vita l'altra estremità. La cosa era molto
grezza e artigianale ma svolgeva efficacemente il compito di offrire
resistenza alla corsa. Partivo più o meno all'altezza del cancello
di casa e correvo come fossi alla finale dei cento metri fino
all'inizio della vigna che stava circa 100 metri più in là. Le
prime ripetute erano accompagnate da un senso di euforia e da una
sensazione di potenza, ma dopo le prime cinque o sei arrivavo alla
vigna con il cuore in gola, come si suol dire “impiccato”. La
stradina era poco frequentata , ma quelle poche volte in cui passava
un'auto cercavo di occultare tra l'erba il pneumatico anche se non mi
slegavo. Insomma mi nascondevo ma non troppo.
In
genere ripetevo l'esercizio una decina di volte, poi slegatomi, dopo
aver recuperato, mi facevo un giro degli impianti sportivi ad
andatura lenta.
Ma
la cosa non passò inosservata e un paio di anni fa, passati
quindici anni, rincontrando alcuni amici a una corsa ciclistica
in paese, uno di questi, ricordando i tempi passati, mi disse:
“Ti
ricordi quando ti allenavi con il copertone lungo la strada sterrata
di casa tua ?, Ne parlavo qualche giorno fa con mia moglie, eri un
grande!”.
Io
lo guardai in parte stupito, perché erano anni che non ripensavo a
quella corda e a quel pneumatico che probabilmente è ancora in
qualche angolo nella casa in cui abitavo.